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iv - il trionfo della spilorceria | 133 |
Ei s’è ficcato l’ór fin sulla nuca,
sotto alla cuffia, e dentro alle brachesse,
in mano, in grembo e dove si manuca.
Mira il gallico re che il sarto elesse
140in proprio araldo, e a un medico furfante
l’uficio insin di cancellier commesse,
com’or spesso un grammatico ignorante
fan servir certe pittime cordiali
in un di segretario e di pedante.
145Egli scrisse le sue spese giornali:
tanto per rattoppare una pianella;
piú per aver fatt’ugner gli stivali.
Cotanto egli ebbe il granchio alla scarsella,
che tu ci puoi veder l’un conto acceso,
150e quell’altro dannato a serpicella.
Ma basti di costui quel che n’hai ’nteso, —
disse il mio duca;—e pria che ’l tempo accorci,
attendi Alfonso re, ch’or tei paleso.
A’ sudditi ingrassar fece i suoi porci:
155cosi toccava un tempo al buon vassallo
di mantenere i principi spilorci.
Vien Carlo Malatesta, s’io non fallo;
che al suo coppier, che un bicchier ruppe a caso,
quasi far fece in campo azzurro un ballo.
160Poco dietro a costui quegli è rimaso
che per amor dell’olio i lumi in chiesa
a spegner si levò dopo l’occaso.
Seco è colui che pur la notte attesa,
scendendo nelle stalle, a’ suoi famigli
165ciuffava il fien per avanzar la spesa;
ma scorto alfin da’ vigilanti cigli
al buio, e sol, di sudice percosse
in su i panni toccò ricchi e vermigli. —
I’ chiesi alla mia guida onde mai fosse
170che costor due e gli altri di lor setta
han la spilorceria fitta nell’osse;