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250 sonetti


XVIII

2.

     Terrestre angiolo mio, che dal bel labro
canti sciogliete ognor dolci e soavi
tanto da pòr tra l’amorose chiavi
qualunq’uom abbia ’l cor piú alpestro e scabro;
    qual fu, qual fu la man si dotta o ’l fabro
che i bei varchi v’apri, si ad arte cavi,
ond’han vita gli accenti, or alti, or gravi,
tra le candide perle e ’l bel cinabro?
     Fu il ciel pietoso che dei miser’anni
pieni d’ira e furor, nel canto vostro
volle farci obliar Tonte e gli affanni.
     Tal, giunto a Stige Orfeo, tacque ogni mostro;
e l’augel, che di Tizio intende ai danni,
terse nell’ale il sanguinoso rostro.

XIX

PER LA STESSA

[1759.]

     Allor che il cavo albergo è in sé ristretto,
onde in un tempo ha l’uom vita e parola,
l’aere soavemente esce del petto,
e al doppio career suo ratto s’invola.
    Per la tornita poi morbida gola
passa al liscio palato; e, vario aspetto
preso fra i denti e ’l labbro, alfin sen vola
dolce a recare altrui gioia e diletto.
     Ma pria costei con la mirabil arte
e l’armonico genio il guida e frena
sotto a le leggi de le industri carte:
     e quindi avvien che da la flebil scena
fa altrui beato; e tal piacer comparte
che seco avvinti i cor tragge in catena.