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sonetti 257


XXXII

2.

     Milan rammenta ancor quel lieto giorno
che pria ti vide, e le felici squadre
di teneri garzon, che a te d’intorno
benedicendo, ti chiamavan «padre»:
    e riverisce il loco ove soggiorno
prima lor desti; e quei togliendo a l’adre
perigliose miserie ed a lo scorno,
tu li volgevi ad alte opre leggiadre.
     E del pio duce ancor loda la mano,
ch’oro ti offri; ma ripensando al zelo
onde tu il rifiutasti, ammira e tace.
     E per te apprende, che dal mondo vano
nulla desia colui che serve al cielo,
e che, giovando a l’uomo, a Dio si piace.

XXXIII

LA PIETÀ DIVINA

[1767?]

     L’arbor son io, Signor, che tu ponesti
ne la tua vigna; e a coltivar lo prese
Misericordia, i cui pensier fur desti
sempre a guardarlo da nemiche offese.
    Ma il tronco ingrato, che si caro avesti,
frutto finora al suo cultor non rese;
e dell’ampie superbo ombrose vesti
sol con sterili braccia in alto ascese.
     Però, tosto che il vide, arse di sdegno
tua Giustizia: — E perché, — disse, — il terreno
occupa indarno? Ornai si tagli ed arda.—
     Ma Pietá pose al tuo furor ritegno
gridando: — Un anno attendi, un anno almeno. —
Arbor, che fia, se il tuo fruttar piú tarda?