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sonetti | 291 |
XCV
2.
Piú non invidio chi vedralla ignuda?
Ah come, ohimè, se immaginando ancora
quella sera fatale o quell’aurora
trema quest’alma sbigottita e suda?
Come soffrir che al mio rivai si schiuda
ciò che, velato ancor, m’arde e innamora?
Come soffrir che a mille baci allora
quel bel labbro, ch’è mio, s’apra e si chiuda?
e ch’altri faccia al bel corpo catena
de le sue braccia, e spiri altri quel fiato,
e ch’altri, oh Dio! che il suo fedele amante...?
Togli, togli da me l’orrida scena,
scaldata fantasia, o disperato
col morir preverrò si atroce istante!
XCVI
LA LINGUA DELL’AMOR VERACE
Ah colui non amò; colui avversi
ebbe i labbri al pensier; perfido inganno
ordí colui che d’amoroso affanno
parlar fu ardito a la sua donna in versi!
I carmi, o Nice, di lusinghe aspersi
spesso imitano il ver, ma il ver non fanno.
È un’arte il verso; ed arte aver non sanno
gli affetti che dal core escon diversi.
Un sospir chiuso a forza; un agitato,
un tronco favellare; un pertinace
ora languido sguardo, ora infocato;
questa è la lingua dell’amor verace;
a questa credi, a questa il core è nato;
e Febo péra e il suo cantar fallace.