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la poesia epica in roma 219

una solennità musica e poetica, e la sua frase vale quanto «ai canti conviviali», che sappiamo essere stati eroici o epici. Ma Catoné affermava qui, come Cicerone conferma anche in altri libri1, che erano i commensali che cantavano, l’uno dopo l’altro, al suono della tibia; non cantori di professione. Notiamo in primo luogo che i commensali diventano in Varrone2 pueri modesti. Non è probabile che Catone questa circostanza, che i convitati stessi cantavano, la imaginasse, non piacendogli ciò che al suo tempo, tuttora al suo tempo, vedeva, che i cantori erano propriamente artisti che cantavano lodi di eroi per loro quasi stranieri; artisti, pueri (che non è detto che valga «fanciulli») o no, che forse avevano cominciato a cantar d’altro, ad tibiam, che de clarorum virorum laudibus? Certo sarebbe, da chi non accettasse questo modo d’intendere, da spiegare, come mai Catone approvi che si chiamassero grassatores quelli che in ea re, ossia nell’arte poetica, si affaticavano. Perchè quei convivae per cantare tali glorie di forti, dovevano pure industriarsi d’impararle a cantare, specialmente con l’accompagnamento della tibia. Il biasimo insomma che dagli altri passi riportati da Gellio del carme intorno ai costumi, risulta che Catone dava a questi chiamati grassatores, non si accorda col tono di lode, che era certo nella notizia riportata da Cice-

  1. Cic. Tusc. I ii, IV ii: est in Originibus solitos esse in epulis canere convivas ad tibicinem de clarorum hominum virtutibus. — ut deinceps, qui accubarent, canerent etc.
  2. Varr. in Nonio ad v. assa voce. In conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant maiorum, et assa voce et cum tibicine.