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la poesia lirica in roma 73

Cyrno, parola non dire giammai troppo grande: chè ad uno
     cosa la notte ed il dì porti, nessuno lo sa.
Hanno chi un male, chi un altro; ma proprio felice nessuno
     è di quant’uomini il sole alto contempla quaggiù.

Il sorriso è fuggevole, triste1:

Cuore, gioiscimi: in breve saranno tutt’altri nel mondo;
     vivi saranno, che morto io nera terra sarò.

Niuno degli uomini il quale la Terra potente nasconda,
     che sia disceso nel Buio, presso la dea di laggiù,
più d’ascoltare la lira, ascoltare le tibie non gode;
     non d’accostarsi il divin succo dei grappoli più.
T’ubbidirò, caro cuore, finchè sono snelli i ginocchi
     e senza tremiti il mio capo sugli omeri sta2.

Stolidi gli uomini e piccoli in vero, che piangono i morti,
     che se n’andarono; non la giovinezza che va3.

Così il convivio, pur cessando d’esser e funebre, non sempre è lieto:

Oh! ne’ giocondi conviti poniamo il nostro animo, mentre
     ch’egli così delle gioie l’opere amabili può.

Va giovinezza la bella via subito, come il pensiero:
     non di cavalle veloci émpito è rapido più.

Portano il loro signore alla mischia in cui volano l’aste,
     e per i campi di grano ilari scalpitano4.

L’elegia, fatta politica, in Solone sembra dimenticare la sua origine conviviale e funebre, nonostante qualche accenno fatalistico, come, «La Moira ai mortali porta il male e anche il bene, e i doni

  1. Theognis 877.
  2. id. 973.
  3. id. 1069.
  4. id. 983.