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42 1936


1° maggio.

Che la poesia nasca dalla privazione, lo appoggia anche il fatto che la poesia greca sugli eroi si compie quando gli epigoni sono cacciati dalle patrie contenenti le tombe degli eroi (cfr. Psiche, I, p. 43).

5 maggio.

Il peccato non è un’azione piuttosto che un’altra, ma tutta un’esistenza mal congegnata. C’è chi pecca e chi no. Le stesse cose (odiare, fottere, oziare, maltrattare, umiliarsi, insuperbirsi) in uno sono peccati, in altri no.

Aver peccato vuol dire restar convinto che quell’azione è in un modo misterioso creatrice d’infelicità propria per l’avvenire, che essa ha offeso qualche legge misteriosa d’armonia e non è che un anello in una catena di disarmonie precedenti e future. Vivere è come fare una lunga addizione, in cui basta aver sbagliato il totale dei due primi addendi per non uscirne piú. Vuol dire ingranarsi in una catena dentata; ecc.

9 maggio.

Anche il conforto di umiliarsi cade nelle solite voluttà o è un principio valido?

Ci si umilia cioè, come per sfruttare un contraccolpo dell’esperienza facendone pretesto a un autospettacolo gratuito (senza impegni morali) o per scavare un filone di condotta etica, per ricercare insomma un piano coscienzioso di doveri?

Che ci sia una compiacenza nell’umiliazione propria, è un fatto. Distinguere se si gode voluttuosamente o tragicamente pare impossibile.

In fondo, siccome non ho trovato altro rimprovero alla voluttà che di rovinare chi la esercita (di farlo «inutilmente soffrire»), basterebbe chiarire se l’autoumiliazione faccia inutilmente soffrire o meno. E nel mio caso, come uscire dalla solita direttiva di controllare la legittimità del mio stato con la sua fecondità o sterilità