Pagina:Pavese - Poesie edite e inedite.djvu/202

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Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. E mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che piú mi ossessionavano. Cosí, senza saperlo, avevo trovato il mio verso, che naturalmente per tutto I mari del Sud e per parecchie altre poesie fu solo istintivo (restano tracce di questa incoscienza in qualche verso dei primi, che non esce dall’endecasillabo tradizionale). Ritmavo le mie poesie mugolando. Via via scopersi le leggi intrinseche di questa metrica e scomparvero gli endecasillabi e il mio verso si rivelò di tre tipi costanti, che in certo modo potei presupporre alla composizione, ma sempre ebbi cura di non lasciar tiranneggiare, pronto ad accettare, quando mi paresse il caso, altri accenti e altra sillabazione. Ma non mi allontanai piú sostanzialmente dal mio schema e questo considero il ritmo del mio fantasticare.

Dire, ora, il bene che penso di una simile versificazione è superfluo. Basti che essa accontentava anche materialmente il mio bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di aver molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresí una logica. E c’ero riuscito e insomma, o bene o male, in essi narravo.

Che è il gran punto in esame. Narravo, ma come? Ho già detto che giudico le prime poesie della raccolta materialistici poemetti di cui è caritatevole concedere che il fatto costituisce nulla piú che un impaccio, un residuo non risolto in fantasia. Immaginavo un caso o un personaggio e lo facevo svolgersi o parlare. Per non cadere nel genere poemetto, che confusamente sentivo condannabile, esercitavo una vigliacca economia di versi e in ciascuna poesia prefissavo un limite al loro numero, che, parendomi di far gran cosa ad osservare, non volevo nemmeno troppo basso, per il terrore di dare nell’epigramma. Miserie dell’educazione retorica. Anche qui mi salvò un certo silenzio e un interessamento per altre cose dello spirito e della vita, che non tanto mi portarono un loro contributo, quanto mi permisero di meditare ex novo sulla difficoltà, distraendomi dallo zelo feroce con cui facevo pesare su ogni mia velleità inventiva l’esigenza della virile oggettività nel racconto. Per restare in biblioteca, un nuovo interesse fu la rabbiosa passione

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