Pagina:Pavese - Poesie edite e inedite.djvu/203

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per Shakespeare e altri elisabettiani, letti tutti, e postillati, nel testo.

Capitò che un giorno, volendo fare una poesia su un eremita, da me immaginato, dove si rappresentassero i motivi e i modi della conversione, non riuscivo a cavarmela e, a forza d’interminabili cincischiature ritorni pentimenti ghigni e ansietà, misi invece insieme un Paesaggio di alta e bassa collina, contrapposte e movimentate, e, centro animatore della scena, un eremita alto e basso, superiormente burlone e, a dispetto dei convincimenti anti-imaginifici, «colore delle felci bruciate». Le parole stesse che ho usato lasciano intendere che a fondamento di questa mia fantasia sta una commozione pittorica; e infatti poco prima di dar mano al Paesaggio avevo veduto e invidiato certi nuovi quadretti dell’amico pittore, stupefacenti per evidenza di colore e sapienza di costruzione. Ma, qualunque lo stimolo, la novità di quel tentativo è ora per me ben chiara: avevo scoperto l’immagine.

E qui diventa difficile spiegarmi, per la ragione che io stesso non ho ancora esaurito le possibilità implicite nella tecnica di Paesaggio. Avevo dunque scoperto il valore dell’immagine, e quest’immagine (ecco il premio della testardaggine con cui avevo insistito sull’oggettività del racconto) non la intendevo piú retoricamente come traslato, come decorazione piú o meno arbitraria sovrapposta all’oggettività narrativa. Quest’immagine era, oscuramente, il racconto stesso.

Che l’eremita apparisse colore delle felci bruciate non voleva dire che io istituissi un parallelo tra eremita e felci per rendere piú evidente la figura dell’eremita o quella delle felci. Voleva dire che io scoprivo un rapporto fantastico tra eremita e felci, tra eremita e paesaggio (si può continuare: tra eremita e ragazze, tra visitatori e villani, tra ragazze e vegetazione, tra eremita e capra, tra eremita e sterchi, tra alto e basso) che era esso argomento del racconto.

Narravo di questo rapporto, contemplandolo come un tutto significativo, creato dalla fantasia e impregnato di germi fantastici passibili di sviluppo; e nella nettezza di questo complesso fantastico e insieme nella sua possibilità di sviluppo infinito, vedevo la realtà della composizione. (A questo piano si era trasferita la mania di oggettività, che ora si chiariva bisogno di concretezza).

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