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combinazione, o alcuna probabilità per ristabilire l’ordine, dopo ciò che è avvenuto.

Ma, signore, dove è pur tuttavia il disordine? Io ripeto le stesse vostre parole: «Il popolo si reca al Quirinale con un programma che consiste nel congedare il ministero retrogrado, a riunire una costituente, a dichiarare solennemente la guerra all’Austria», ecc. E allora l’intero ministero dà le sue dimissioni e si propone una lista ministeriale, a capo della quale figurano i signori Sterbini, Galletti e Mamiani, gli uomini più ragguardevoli fra i Romani. Il Papa accetta questa lista. Eccovi una combinazione, non solo possibile, ma già effettuata. Ecco l’ordine, mi sembra. Per stabilire quest’ordine, non è stata necessaria nè la dittatura, nè lo stato d’assedio: Roma è tranquilla. Si, o signore, Roma è tranquilla, perchè essa è forte, perchè essa è grande.

Il non voler vedere in un popolo che si leva unanime, per rivendicare il diritto di nazionalità, questo diritto che la Francia repubblicana ha proclamato alla faccia del mondo con la stampa e coi programmi dei suoi uomini di stato, non voler vedere, dico, in questo popolo che un mucchio di cospiratori è stoltezza, o mala fede.

Voi vi rammaricate che il governo della Repubblica non abbia dato, nel momento, qualche appoggio al Sovrano Pontefice: voi aggiungete che è impossibile assistere a spettacolo più triste pei Francesi di quello di cui voi siete stato testimonio oculare. Ma quale appoggio dunque poteva dare la Repubblica tricolore a un principe che, spaventato dell’opera propria, di cui non ha voluto le conseguenze, non vuole nè un ministero largamente liberale, nè costituente, nè guerra con l’Austria, condizione questa indispensabile per ottenere l’indipendenza italiana? La Rivoluzione di febbraio non ha detto, per mezzo del manifesto del signor Lamartíne: «Soccorso ai popoli che faranno generosi sforzi per ricuperare la libertà: essi possono contare sul coraggio, sulle simpatie, sul patriottismo della Francia»?

Si stenta a credere che quei vostri dispacci, che si crederebbero l’opera del signor Guizot, o del Principe di Metternich, siano destinati a darci esempio della diplomazia di un paese, dove si son fatte tre sanguinose rivoluzioni in nome del popolo. E intanto proprio a questo son giunti, non dirò i Francesi, che io amo ed onoro, ma il signor Bastide, ministro degli affari esteri in Francia, e voi signor D’Harcourt, suo degno rappresentante in Italia,

Gradite, signore, l’assicurazione della mia perfetta considerazione1.

Torino, 7 dicembre 184S.

Un emigrato lombardo.


Questa nobile lettera del Marchese Giorgio Pallavicino non poteva essere nè più inesorabilmente logica, nè più patriotticamente efficace.

Il generoso lombardo metteva in splendida luce tutte le fragranti contraddizioni fra le pompose e altisonanti parole del

  1. G. Pallavicino, Memorie pubblicate per cura di sua moglie, Torino, E. Loescher, 1886, vol. II, pag. 39 e seg.