Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/295

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reggiava la casa del mio amico, un piccolo battuto, graffiato sur una roccia friabile e sdrucciolevole, a perpendicolo a dugento piedi sul mare ed assolutamente a picco. Una capra, un gatto, avrebbero esitato e rabbrividito. Pregai Cecilia di scendere e di precedermi, mentre io avrei cura di assicurare il passaggio delle due bestie.

“Ammaliata dallo spettacolo di quel mare azzurro, svolazzato, incartocciato a volute, chiazzato dai raggi bianchi del sole tremolanti sull’onde, quasi abbarbagliata da quel miraggio fatato, Cecilia smontò e principiò a camminare. Guardava il cielo ed il mare meglio che il suolo ove poneva il piede. Di un tratto la vidi vacillare. Mi spaventai del suo pericolo e le misi la mano alla taglia onde sostenerla; la mia mano la scosse e le fece perder l’equilibrio, sdrucciolò. Io chiusi gli occhi.

“Quando li riaprii, per osservare, il vuoto era dinanzi a me.

“Vidi il mare brulicare a’ miei piedi, le piccole onde baciare la sponda e recedere come pudibonde ed, in fondo in fondo, riflessa dalla azzurra trasparenza dell’acqua, qualche cosa di bianco, come una Naiade che si moveva e affondava sempre e sempre. Quell’ombra bianca sbiadì, divenne opaca, verdastra, turchina d’indaco, più scura ancora, nera, disparve.

“Io era vedovo.

“La società era vendicata.

— Come la provvidenza vi aveva servito! sclamò il carceriere in capo.