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come si può star quieti a pensare che c’è uno che s’affanna a persuadere agli altri che tu sei come ti vede lui, e a fissarti nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti vedano e ti giudichino altrimenti? —
Ebbi appena il tempo di notare lo sbalordimento di Quantorzo, che mi rividi davanti Stefano Firbo. Gli scorsi subito negli occhi che m’era diventato in pochi istanti nemico. E nemico subito anch’io, allora; nemico, perchè non capiva che, se crude erano state le mie parole, il sentimento che poc’anzi aveva fatto impeto in me, non era contro di lui direttamente; tanto vero che di quelle parole ero pronto a chiedergli scusa. Già come ubriaco, feci di più. Com’egli, venendomi a petto, torbido e minaccioso, mi disse:
— Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto per mia moglie! —
M’inginocchiai.
— Ma sì! Guarda! — gli gridai, — così! —
E toccai con la fronte il pavimento.
Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio, ch’egli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai ridendo, e tònfete, tònfete, ancora due volte a terra, la fronte.
— Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star così! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai così detti pazzi, così! —
Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli occhi, spaventati. L’uno domandò all’altro:
— Ma che dice?