Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
m’era apparso chiaro ch’io alla presenza di quei due, io come io, non ci fossi, e ci fossero invece il “Gengè„ dell’una e il “caro Vitangelo„ dell’altro; nei quali non potevo sentirmi vivo.
Fuori d’ogni immagine in cui potessi rappresentarmi vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d’ogni immagine di me quale mi figuravo potesse essere per gli altri; un “punto vivo„ in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi.
— Finiscila di ridere! — gridai, ma con tal voce a mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d’un tratto ammutolì, scontraffacendosi tutta.
— E tu stai bene attento a quello che ti dico, — soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. — Voglio che la banca sia chiusa questa sera stessa. —
— Chiusa? Che dici? —
— Chiusa! chiusa! — ribattei, facendomegli addosso. — Voglio che sia chiusa. Sono il padrone, sì o no? —
— No, caro! Che padrone! — insorse. — Non sei mica tu solo il padrone.
— E chi altri? tu? il signor Firbo?
— Ma tuo suocero! ma tanti altri!
— Però la banca porta soltanto il mio nome.
— No, di tuo padre che la fondò!
— Ebbene, voglio che sia levato!
— Ma che levato! Non è possibile!
— Oh guarda un po’. Non sono padrone del mio nome? del nome di mio padre?