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Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/112

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     E pur, che giri gl’occhi, o ’l passo mova,
Aprile, e Maggio, ovunque vuole, adduce;
Che (sua mercede) ratto si rinova
Quella virtù, che dentro a i fior traluce:
Come nel guardo del fratel suo, nova
Forza racquista la notturna luce:
Pur ciò, che piova da quei dolci rai,
Primavera per me non fu ancor mai.

     Che par, che seco scherzi la natura,
E pugnin spesso per udirla i venti:
Ella di ciò non altrimenti cura,
Che di numero il Lupo infra gl’armenti,
O de le ripe il fiume, così pura,
Le Grazie, ch’ha d’intorno ognor presenti,
Poco sente, e gradisce, e lieta, e vaga
Sol di se stessa se medesima appaga.

     Nè rugiada già mai fresca di notte,
Quando la luna i campi arsi rintegra,
E l’affettate piagge, e dal sol cotte
Copre d’argento, e i sacri boschi allegra,
A Giove l’erbe a supplicar condotte
Così ristora, e rende ogni ombra integra;
Come la chiara vista, e ’l vago piede
Di questa, che nel cor mio regna, e siede.