Vai al contenuto

Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/148

Da Wikisource.

     Tal ch’aspettava ogn’or per penitenza
Sentirmi trasformar di membro in membro,
Tutto in un ravavel da la semenza.
     Quantunque in buona parte lo rassembro,
Quando dopo lunghissima vigilia,
Di qualche mia dolcezza mi rimembro.
     Fra l’erbe poi, ch’erano cento milia,
Vidi altrove il papavero, e l’ortica,
Che disputavan de sonno, e vigilia.
     Mentre al dolce cantar de la pudica
Verbena, sen veniva di nascosto
Il serpillo, a sentir sì bella amica,
     Cantava un’elegia poco discosto
La pallidetta Salvia, ch’a gran torto
Con l’amato lardel fu fatta arrosto.
     Parea tutto quel monte un celeste orto,
Sol da la magra, e vecchia poesia,
Per piacer coltivato, e per diporto.
     Dietro a me sen venia la mula mia,
Di cui per riverenza era smontato,
Ch’anco ella aveva un termin di pazzia
     E già rignando, e compartendo il fiato
A l’organo, ch’avea sotto la coda,
Incominciava un canto figurato.
     Ma non so, che maggior miracol s’oda
Di quel ch’or (Cavalier) dir vi vorrei,
Benchè abbia faccia di menzogna, e froda,