Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/27

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Mai celebrar le tue divine laudi?
A cui si converria, per farle chiare,
Non suon di canne, o di sottile avena,
Ma celeste armonia di moti eterni.
Io veggio il Tebro Re di tutti i fiumi
Rincoronarsi dell’antiche frondi
Sotto ’l governo di sì gran Pastore,
Ornato di virtù tanto eccellente,
Che se potesse rimirarla il mondo,
S’accenderebbe della sua bellezza.
Non prender dunque ne’ tuoi floridi orti
Quel seme, donde brutta gente nasca,
Che par simile a quel, che vien da lunge
Fra ’l polvere aridissimo dal Sole,
Ch’appena il loto può, ch’ei tiene in bocca,
Sputare in terra con le labbra asciutte.
Ma piglia quelle, che risplendon, come
La madre Oriental dell’Inde perle,
Che pinge il mare ove se insala il Gange.
Empi di tai parenti i cavi spechi;
Che quindi al tempo poi più dolce mele
Premendo riporrai; nè sol più dolce,
Ma chiaro, e puro, e del color dell’ambra;
Atto a dolcir con esso acerbe frutte,
Nespole, e sorbe, e l’agro umor dell’uva.
Ma quando poscia inordinato gira
L’alato armento, con le sue famiglie,