Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/29

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     Il che noce di lor fin alle foglie,
Oltra che non dan mai quanto han promesso,
E quel poco men buon, ch’indi si coglie.
     Pria che ’l poder sia nostro, non solo esso
Noi dobbiamo e mirare, e squadrar bene,
Ma ancor le terre, che gli stan da presso.
     Perchè se quelle splendon, ne dan spene,
Anzi certezza, che sia buono il clima.
Sappiasi ancor l’uom che vicin si tiene.
     E quai siano i vicini inquirer prima
Che gli alberghi o i poderi abbiam noi tolti,
È di momento assai più ch’uom non stima.
     E vi potrei contar popoli molti,
Che per fuggir vicini ladri, infidi,
Si son da più contrade insieme accolti;
     E dalle patrie lor, dai dolci nidi
In volontario esilio si son messi,
Nuove terre cercando, e nuovi lidi.
     Nel principio del mondo fur concessi
Agli animai da Dio quei privilegi,
E quei doni, che chiesero egli stessi.
     Come nuovi vassalli a nuovi regi,
Gran popolo di loro ivi convenne;
Quali ai comodi intenti, e quali ai fregi.
     Tra gli altri la testuggine vi venne,
E chiese il poter sempre, o vada o seggia,
Trar seco la sua casa; e ’l dono ottenne.