Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/36

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     E in parte mai dar àncora non vidi,
Ove la turba vil di forca degna
Nel gire a’ danni altrui tanto osi e fidi:
     Smonti in Sicilia, in Corsica, in Sardegna,
In Liguria, in Provenza, e ’n Catalugna;
E coglia i frutti altrui, tronchi le legna.
     Non vo’ ch’uom corra al ferro o venga a pugna
Ma preghin chi ’l può far, quei che dan voti
Che freni arpie, c’han sì rapaci l’ugna.
     Che peggio potrian far Svizzeri e Goti
Ne’ campi de’ nemici, e de’ ribegli,
Che qui fan oggi i nostri galeoti?
     Non spero, che in ciò Napoli si svegli.
Poichè in cosa maggior l’aggrava il sonno.
Le man l’avess’io avvolte entro i capegli!
     Torniamo al campo. I ricchi qualor vonno
E con la vigilanza, e con la borza,
Ogni aspro scoglio fertile far ponno
     Onde tastar bisogna oltre la scorza
Il terren, ch’a veder voi siete addutto,
Che sia buon per natura, e non per forza:
     E quando anco sia tal, che per far frutto
Non richieda molt’oro, opra e fatica:
E questa parte grava a par del tutto.
     Quella nobil Romana gente antica,
Tanto lodata in prosa, e ’n verso, e ’n rima,
Che fu dell’arte rustica sì amica,