Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/38

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     Vuol Dio, che stato sotto il ciel non sia,
Ove uom s’acqueti, e men chi ha miglior sorte;
Nè senza affanno abbia uom quel che desia.
     Un saggio contadin venendo a morte,
Acciò che i figli in coltivar la terra
S’esercitasser dopo lui più forte:
     Figli, lor disse, io moro, ed ho sotterra
E nella vigna il più de’ beni ascoso;
Nè mi sovvien del cespo, ove si serra.
     Morto il padre, i fratei senza riposo,
A zappare e a vangar tutto il dì vanno,
Ciascuno del tesoro desioso.
     La vigna s’avanzò dal primiero anno,
E i giovanetti inteser con diletto
Del provvido vecchion l’utile inganno.
     Aveva un buon Romano un poderetto,
Dal qual traea più frutto, che dai grandi
Non traean quei da canto, o di rimpetto.
     Nè basta all’altrui invidia, che dimandi:
Ond’è, che tanto renda il poder tuo,
Che è tal, che un manto il copre; che vi spandi?
     Ma accusandol più d’uno, e più di duo,
Dicean, che con incanti e con malìe
Le biade altrui tirava al terren suo.
     Venne a giudizio il destinato die,
Che si dovea por fine a le tenzoni,
E scoprir l’altrui vero, e le bugie.