Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/44

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     Ogni terren, quantunque aspro e cattivo,
È ad uso uman, purchè nel suo si fermi,
E non si sforzi agli altri, ond’egli è schivo.
     Che più, che nudi scogli arsicci, ed ermi?
E cappero e bambagia vi si crea,
Questa alle donne, e quel caro agli infermi.
     Uom ch’abbia vista la Pantalarea,
Com’io talor, gli è forza, che concluda,
Che terra non ha il mondo che sia rea.
     Pietra cinta di mar, negra, arsa e nuda,
Dove non credo che mai piova o fiocchi,
Eppur fa frutto, e quel secco osso suda.
     La miglior terra, che col piè si tocchi;
Non pur s’apra col ferro adunco e greve,
Qual sia, dirò con note esposte agli occhi.
     Quella, che esala sottil nebbia e lieve,
Onde in sul grembo suo l’aria ne fuma;
E bee l’umore, e ’l caccia qualor deve,
     Nè la state vien secca, nè la bruma
Umida troppo, e di sua verde erbetta
Sempre si veste, come augel di piuma;
     Nè di ruggine salsa il ferro infetta:
Questa le viti liete agli olmi intesse;
Questa è fertil d’olive, questa alletta
     Greggi ed armenti, e loro fresche e spesse
Erbe ministra, e questa ai buon cultori
Egual al gran desio reca la messe.