Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/50

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     E di mia mano innesti e pianti e svella
La spessa de’ rampolli inutil prole,
Che fan la madre lor venir men bella;
     E con le care figlie, e se ’l ciel vuole
Spero co’ figli a tavola m’assida;
La state ai luoghi freschi, il verno al sole;
     E di mia man fra lor parta e divida
L’uve, e le poma; e s’io mi desti o corche,
Con loro io mi trastulli e scherzi e rida.
     Bocche mi paian di balene e d’orche
Le porte de’ palagi, e le colonne,
. . . . . . .
     E ’l Vasto, e quattro o cinque illustri donne
Ad inchinar talor sol mi riserbe;
Cui servo in chiare, ed in oscure gonne.
     I pavimenti miei sien fiori ed erbe;
Rami i tetti, e negre elci i marmi bianchi;
E botti l’arche, ove il tesoro io serbe:
     Nè curi ire a palazzo, o stare a’ banchi,
E dimandar che faccian Turchi o Galli;
Se arman di nuovo, e se ambiduo son stanchi.
     Non sia obbligato a suono di metalli
Giorno e notte seguir picciol zendado,
Forbir arme, e nutrir servi e cavalli.
     E qual si sia, contento del mio grado,
Non cerchi di chi scende, o di chi poggia;
O che altri m’abbia in odio, o gli sia a grado