Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/51

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     E quando i dì son freddi, o versan pioggia,
Con la penna io, le femmine con l’ago
Passiam quelle ore in cameretta o in loggia.
     Se mai vi giungo, e’ mi parrà già pago,
Ch’abbia negli arbor miei maggior tesoro,
Che non avean quei, che guardava il drago.
     Non avesse altro bene, altro ristoro,
Che scostar l’uom dalla città corrotta,
Comprar si dee la villa a peso d’oro.
     Mi meraviglio (a tal vedo ridotta
La fera turba, che qui dentro alberga),
Come il terren non s’apra, e non ne inghiotta;
     O come il mar tant’alto un dì non s’erga,
Che avanzi questi monti, e ’n noi s’attuffe,
E in un punto ne affoghi e ne sommerga.
     La poca fè, le ruberie, le truffe,
Le proprie utilità, l’altrui gravezze,
Le tante uccision, le tante zuffe,
     Le pompe, le lascivie e le mollezze
Non men nelle berrette, che ne’ veli
Le bestemmie, il mal dire, e le alterezze,
     E le altre scelleragini crudeli,
Il cui lezzo là su credo che saglia,
Non so come soffrir possano i cieli.
     Ma quando d’altrui vizi a voi non caglia,
Per fuggir molte cose vie men gravi,
Stimo, la villa ogni alto pregio vaglia.