Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/54

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     Nei luoghi caldi io vo’, che a tramontana
Guardi, e ne’ freddi all’austro, e ne’ temprati
D’ond’esce il marzo, dicon, la diana.
     Sia grande pur sì, che vi stiano agiati
Il villico, il signor, e gli animali,
Gli ordigni chiusi, e i frutti conservati.
     Che se fan danno i tetti ampi e reali,
Qualor la villa di strettezza pecchi,
Porta ancor degli incomodi, e de’ mali:
     Che avvien che ’l frutto o infracidisca o secchi,
S’è mal riposto, o che l’un l’altro s’urti,
O che verme sel roda, o uccel sel becchi.
     E rado giungon dal dì lungo ai curti
Le fatiche degli uomini, e de’ buoi,
E spesso incontran le rapine, e i furti.
     E se non ha l’albergo i membri suoi,
Comprate pur, se ’l loco non è angusto,
Sì che possiate fabricarvi voi,
     E farvi delle stanze a vostro gusto,
Or una, or altra agli usi accomodata,
Qual di decembre buona, e qual d’agusto.
     L’aver villa ben concia, e bene ornata,
Ove per poca agevol via si monte,
Fa che sia dal signor più frequentata;
     Che ogni giorno vi vada, ognor vi smonte:
E del padron le giova e giorno e notte,
Via più che la collottola la fronte,