Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/55

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     Sianvi sue volte, ove s’arringhin botte,
E più del vino, che ’l poder produce,
E più m’aggraderian se fossen grotte;
     Il vento, l’uman piè, l’aria, e la luce
Entrin per Borea, e ’l men che può le guarde,
Non che scaldi, il pianeta, che ’l dì luce.
     Stanza non vi si appressi, ove foco arde,
O che sporcizie accoglie: o fuor le scaccia,
E se vi sia, l’emenda non si tarde.
     La corte spaziosa, ma non giaccia
Sì ch’entro e fuor s’allaghi al tempo pluvio,
E fango eterno aria mortal vi faccia.
     Sia larga assai, nè curi di Vitruvio,
Acciò che dentro più animali accolga,
Che non ne salvò l’arca dal diluvio.
     Qui si veda il pavon, che in giro sciolga
Sue vaghe gemme, e spregi ogni altro augello,
E guardandosi il piè talor si dolga.
     E ’l pavon d’India peregrin novello
Augel, senben non ha sì nobil coda,
Non men buon morto, che quel vivo, bello.
     Ivi di dì, e di notte il romor s’oda
Delle torme dell’anatre e dell’oche,
Guardia fedel contro a notturna froda:
     E striduli pulcini, e chiocce roche,
E galline straniere e del paese;
Molte di queste, ma di quelle poche,