Pagina:Poemetti italiani, vol. III.djvu/56

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     V’abbian lor piazza, ove di mese in mese
Sul vivaio, sul polvere e sull’aia
Si trovin da beccar senz’altrui spese.
     E ’l bue, che steso mugghia, e ’l can che abbaia
Le notti, e ’l gallo, che al villan dà legge,
Un’armonia dolcissima vi paia.
     E serrar vi si possa armento e gregge
Ad un bisogno, se aquilon protervo
Fa che di neve il monte e ’l pian bianchegge.
     Qui cavriuol domestico, lì cervo,
Cui sonante monile il collo attorca,
Or coi fanciulli scherzi, ed or col servo:
     E si veda la grassa e stanca porca
Con più figli attaccati alle sue poppe,
Ch’or sul letame or sul terren si corca;
     E ’l fico e ’l pero, che austro e borea roppe,
Da rozza man cavati in varie foggie,
Sian di questi animai l’urne, e le coppe.
     Abbia il cortile sue capanne e loggie,
Che i maggior legni, scale, aratri, e carro
Riparino dal caldo e dalle pioggie;
     E l’aia dentro, acciò che ’l grano, e ’l farro
Si scotan dalle paglie, e fuor non trove
Da involar il villan ladro bizzarro;
     Ed ampi tini, e laghi a tetto, dove
L’uva si prema; e se gran sol l’aggiunge,
Non arrughi, o marcisca, qualor piove.