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Pagina:Poemetti italiani, vol. IV.djvu/163

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Il mio labbro digiun, che a sorso a sorso
Va quel salubre farmaco libando,
E per dolcezza non invidia allora
Il nettare, che largo in ciel mescea
Alla mensa de’ numi il buon Vulcano.
     Pieno così di nobil foco all’aure
Apro grand’ala, che varcar non pave
Gl’immensi tratti del profondo cielo;
E non della bivertice montagna
Volo sull’erta, ma là dove Atlante
Vastissimo sul curvo omero torce
L’asse ardente di stelle, e geme al pondo
Dell’armoniche sfere. Ivi di schietto
A’ raggi permeabile cristallo
Ruotan due cieli e il mobil primo, e sparso
D’astri minuti il firmamento. In mezzo
A’ lumi erranti, all’instancabii sole
Sul non movibil asse alto librata
Pende la terra neghittosa, e sta.
Ma, mentre pingo arabe cifre e segno
Per l’artifizio di volubil punta
Di bifido compasso orbite e globi,
Ecco tocca del monte arduo le cime,
Su geometre penne remigando,
Filosofo borusso, armato il braccio
D’aspra per molti nocchi erculea clava,
E fermo su due piè contempla i giri
Di tante sfere, e non fa motto. A lui