Pagina:Poemetti italiani, vol. IV.djvu/171

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Tal che in se stesso riferito il tempo
Alla distanza cubica risponde,
C’hanno fra lor l’erranti stelle in cielo.
     Ma la severa numerosa legge,
Ch’agli spazi ed al tempo incider seppe
Sulle celesti tavole il germano,
Legge è non men di gravità, che tutte
Con forza pari alla lor mole attrae
In ciel le stelle, e sulla terra i corpi.
Per lei volge sì ratto al sole intorno
Il picciolo Mercurio, e così lento
Il remoto Saturno oltre sen va.
E l’oceàn, che vicendevolmente
Le terre allaga e nell’antico letto
Librandosi in se stesso alto ritorna,
Per forza sol d’attrazion si spande,
E si raccoglie in liquide montagne,
Docil seguendo il corso della luna,
Tal che più s’erge minaccioso e freme
Il versatile fiotto, allorché piega
Cintia di nuovo sulla fronte il corno,
O del fratello la raggiante imago
Tutta ripete in mar dal pieno volto.
Né le comete, benché tanta in cielo
Volgano elisse oltre Saturno, e tanto
Abbian lenti ritorni, a quella legge
Sottrar si ponno, che le chiama al sole,