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28 ESIODO 497-528

sí che miseria né freddo non l’abbia a irretire fra i geli,
e con la mano scarna non s’abbia a scaldare il pié gonfio.
Lo sfaccendato che vive di vane speranze, che pieno
500è di bisogni, si cruccia con molte tristezze nel cuore.
Il pigro che non ha da vivere, e passa il suo tempo
dove si ciancia, ha sempre vicina l’attesa del danno.
Appena a mezzo è giunta l’Estate, ammonisci i tuoi servi:
«Non sarà sempre Estate: pensate ad empir la dispensa».

     505Ecco il mese Lenèo, brutti giorni, che scòiano i bovi.
Guàrdati bene, schiva la brina che allora si addensa
sopra la terra, nociva pei soffi di Bora, che lungo
la Tracia, di cavalle ferace, sul mare infinito
si leva, ed imperversa. Rimbomban le terre e le selve,
510e molte eccelse querce fronzute ed abeti massicci,
entro i recessi dei monti piombando, sradica e abbatte.
È tutta quanta un ululo allora la selva infinita:
abbrividiscon le fiere, si stringon la coda alle coglia;
ch’ànno di peli ombrata la pelle; ma pure, per quanto
515abbiano irsuto il fianco, di Bora le pènetra il gelo.
E pènetra pel cuoio dei buoi, che non basta al riparo,
spira traverso il fitto pelame alle capre; ma invano
tenta la forza di Bora passar delle pecore il vello,
ché troppo è folto. E fa che si raggomitoli il vecchio;
520ma offendere non può la tenera vergine: in casa
essa rimane allora, vicino alla madre diletta,
ché d’Afrodite, che d’oro s’adorna, i piaceri essa ignora:
monda nel bagno, d’olio cospersa le tenere membra,
entro la casa, ov’è piú segreta, la notte trascorre,
525nei dí d’inverno, quando rosicchia il suo piede il Senzossa8,
nella sua tana priva di fuoco, in funesto soggiorno,
ché non gli mostra il sole un pascolo ov’egli si volga,
ma sopra le città, su le turbe degli uomini negri