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Pagina:Prose e poesie (Carrer).djvu/349

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za, quante diversità, quante mutazioni nell’uno e nell’altro!

Quando cangiano siffattamente gli oggetti materiali a’ miei occhi, che dovrò dire degl’immateriali rispetto alla mia mente? Io che mi vo lamentando della incostanza degli uomini, sarebbe questa colpa mia, anzichè d’altri? o, a meglio dire, non saremmo tutti egualmente colpevoli? Non ci mostreremmo in ciò ligi alle leggi universali della natura, ove nulla rimane lungamente nello stato medesimo, ma tutto si volve e rimuta dalle primitive sembianze? Il mio pensiero fu anch’esso non più che germe, sbucciò, e, secondo gli avvenne trovar benigne le condizioni del terreno e dell’aria, si aperse nelle sue foglie, mise il fiore, maturò il frutto. Qual frutto, e di qual sapore, a me non sta giudicarne.

E tornai a guardare que’ palagi distesi in due lunghe ale, e rivoltomi ad altra parte, la basilica augusta, e la torre sospinta coll'angelo d’oro negli ultimi cieli; e, alquanto da lato e più lunge, la mole, che fu principesca, sorretta da tonde e massicce colonne, e chiusa di pareti bianche e rossastre, colle sue balaustrate, co’ suoi ampii veroni, colle sue finestre. E tutto questo che diceva al mio cuore? Presso a poco ciò stesso che le roveri annose della foresta, ove passai alcun anno infantile, quando io vedeva trasparire, or non ha più che alquanti mesi, la luna fra i rami, e sentiva l’aride foglie (era d’autunno) stridere sotto a’ miei piedi, che le polverizzavano.