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Pagina:Prose e poesie (Carrer) IV.djvu/56

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sia provveduta di eguale acconcezza a cogliere quelli di un sillogismo. Che va ella dunque dicendo che uno scritto sia poco o troppo metafisico? Ma per metafisico la buona signora intende inintelligibile, o non facilmente intelligibile. Dire: non capisco, ovvero: non capisco che a grande fatica, non è confessione troppo piacevole a farsi; quindi si dia mano a una frase, ch’io chiamerei empirica, o ciarlatanesca come si voglia, e si dica: quello scrittore mi dà nel metafisico. La vergogna è riversata in capo allo scrittore, e la signora ci scrocca d’avanzo la riputazione d’ingegno pronto e vivace, che non ama di perdersi fra le inutili spinosità della scuola. E basti di questo.

Ne volete un altro? Entro una sala dove si stringono in discussione molto accanita due parlatori. Capperi! Si tratta niente meno che della preferenza da accordarsi a Tizio in confronto di Caio, che hanno voce ambidue di abilissimi professori nell’arte loro. Una buona anima, che ha la sciagurata imbecillità di supporre che il piantare alcuni principii e da questi dedurre alcune conseguenze sia il mezzo più opportuno a persuadere una qualche verità a chi vi sta ad ascoltare, si affatica con ogni suo ingegno a dimostrare all’avversario la incontrastabile superiorità di Tizio, ma quegli che tiene per Caio esce in queste parole: oh quanto a me non mi perdo in tanti discorsi, un poco d’inspirazione