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canto quarto. 65

24 Noi gli lasciammo presso a una fonte,
     Perchè pur quivi si fermorno a bere:
     Quivi legati appiè gli abbiam del monte,
     Ed or di te venavamo a sapere,
     Se rotta avevi al serpente la fronte,
     O da lui morto restavi a giacere.
     Disse Rinaldo: Pe’ cavalli andiamo,
     E tra noi scusa, Ulivier, non facciamo.

25 Ritrovorno ciascuno il corridore;
     Dicea Rinaldo: Or da toccar col dente
     Non credo che si trovi, insin che fore
     Usciam del bosco, o troviamo altra gente:
     Così stessi tu, Carlo imperadore,
     Che vuoi ch’io vada pel mondo dolente;
     Così stessi tu, Gan, com’io sto ora,
     Ma forse peggio star ti farò ancora.

26 E così cavalcando con sospetto,
     Rinaldo si dolea del suo destino,
     E quel lione innanzi va soletto,
     Sempre mostrando a costoro il cammino:
     E poi ch’egli hanno salito un poggetto,
     Ebbon veduto un lume assai vicino;
     Che in una grotta abitava un gigante,
     Ed un gran fuoco s’avea fatto avante.

27 Una capanna di frasche avea fatto,
     Ed appiccato a una sua caviglia7
     Un cervio, e della pelle l’avea tratto:
     Sente i cavai calpestare, e la briglia:
     Subito prese la caviglia il matto,
     Come colui che poco si consiglia:
     A Ulivieri, furioso più ch’orso,
     Addosso presto la bestia fu corso.

28 Ulivier vide quella mazza grossa,
     E del gigante la mente superba;
     Volle fuggirlo: intanto una percossa
     Giunse nel petto sì forte ed acerba,
     Che bench’avessi il baron molta possa,
     Di Vegliantin si trovava in sull’erba.
     Rinaldo quando Ulivier vide in terra,
     Non domandar quanto dolor l’afferra.


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