Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/268

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pultava. 227

na al suo destino. È demenza aggiogare allo stesso carro l’intrepido destriero e la timida damma. Commessi una imprudenza; ora ne pago il fio. Tutti quei dolci fiori che fan gioconda l’esistenza, essa me li recò in dote, essa ne incoronò la mia truce vecchiaia.... E che le offro io in contraccambio?... Che dono le appresto?... Ahimè lasso!...”

E Mazeppa contempla la bella che riposa sì tranquilla sulle piume. Le labbra son socchiuse, il respiro è quieto; il cuore batte lentamente in quel niveo seno.... Ma dimane!.... Mazeppa a quell’idea ritorce la vista dal letto, s’alza, ed a passi lenti si incammina verso il solitario suo giardino.

La notte è placida; il cielo è limpido; le stelle brillano. Il vento stanco dorme nelle caverne alpestri. Appena tremolano le argentee fronde dei pioppi. Nere idee sorgono e s’aggirano per l’animo dell’etmanno. Le faci della notte lo mirano e lo spiano come tanti occhi indagatori. I pioppi stretti in lunga fila, crollando di tanto in tanto il capo, susurrano fra loro, come giudici al fôro. L’aria è ardente come la vampa d’una fornace.

Un flebil grido, un gemito indistinto sembra escir dalle mura del castello. Forse fu un suono imaginario, lo strido d’un gufo, o l’urlo d’una belva, o il cigolío d’una tortura. Mazeppa tornando in sè a quel grido prolungato e funebre, vi risponde con un grido festoso, con quel grido di guerra, che tante volte alzò sul campo della strage e della gloria, quando scagliavasi impetuoso nella mischia ardente in compagnia di Zabiela, di Gamalea, e di quello stesso Cocciu-bei, or suo accusatore.