Pagina:Racioppi - L'agiografia di San Laverio del 1162.djvu/136

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Sono congetture; lo so, e lo dichiaro; e il campo delle congetture è sì largo e sì agevole, che non ci è merito punto il corrervi un palio, o il cogliervi un fiore. Torniamo dunque nel campo della storia. Ma in questo campo è forza conchiudere che non bastano gli Atti di san Laverio a stabilire la esistenza di una città o vico Tergia nell’antica Lucania. Non bastano: perchè un documento, unico e singolare, del secolo XII non può servire di fonte sicura a cose del secolo IV di Cristo; perché a questo documento manca il suggello della genuinità, manca il riscontro di più genuine fonti a cui abbia attinto; e perchè ancorché interpolato non fosse, non è conforme nei suoi dati storici capitali nè alla storia vera, nè al contenente generale di ogni storia questo monumento, cho lo selve della Lucania popola di tigri, di leopardi o di leoni nel secolo IV dopo Cristo. Se dunque si lasci da parte ogni pretensione di fonte storica, e si riconosca al monumento il suo solo valore leggendario, saremo forse più ingenuamente maravigliati, ma fuorviati meno dal sentiero della verità. L’agiografo popola di tigri e di leoni i boschi della Lucania, perchè, nella pienezza dell’ingenuità sua, è venuto atteggiando il suo dramma sugli schemi agiografici della Chiesa di Africa. Non avrebbe egli potuto, e con ingenuità non di certo maggiore, aver pescato nello fonti stesse anche il nome della patria del suo protagonista? Tergis era città della Libia, sui confini dell’Etiopia, secondo Stefano il geografo; Plinio rammenta (VI, 29) un’altra città dell’Etiopia col nomo di Tergedum; e Terga è nel Marocco; e Targa è presso Tetuan. Il lettore può scegliere. Ma non mi rimproveri la palmare incongruenza che tradurebbe il Santo nato nell’Africa innanzi al tribunale di un Preside nella Lucania! Sarebbe incomportabile, sarebbe assurdo, so voi cercaste la storia: non è, so ricordate che siamo nel campo della poesia, — epopea o leggenda che vogliate dirla. Nelle quali, ricordiamolo pure, la storia presta il fondo al quadro così e non altrimenti, come fa nei romanzi della cavalleria: come in questi sì in quelle lo spazio e il tempo scompaiono; i limiti si fondono e confondono; l’impossibile si annulla; il maraviglioso invece sottentra, e aleggia e domina il quadro, e intreccia e scioglie i nodi del dramma. La leggenda non è che la poesia epica del sentimento religioso del popolo; essa riflette e crea la storia così, come la riflettono e la creano l’epopea dell’Iliade, del Cìd, o dei Nichelunghi.