Pagina:Rapisardi - Opere, I.djvu/16

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6 Peccati confessati

ed io tenni duro, tanto che il Revisore, scappatagli la pazienza, mi licenziò bruscamente, dicendomi che non poteva permettere la stampa della mia poesia.

Non pubblicare quell’ode era per me come un rinunziare alla gloria. Corsi dal professore, il quale trovò modo di aggiustar la faccenda; l’ode fu stampata con qualche lieve mutamento di parole, che in fondo in fondo dicevano la stessa cosa di prima; e da quell’ora memorabile del 4 febbrajo 1857, mentre la festeggiata patrona passava per piazza Stesicorea tra un’immensa folla baccante, e i miei sonetti variopinti, lanciati dalle finestre del Tribunale, s’avvolgevano svolazzando tra il fumo dei mortaletti, per cadere sulle teste, fra le mani e sulla punta de’ bastoni, che s’agitavano all’aria per acchiapparli, io presi il mio regolare biglietto d’andata senza ritorno al monte della Gloria e al tempio dell’Immortalità.

Non m’addormentai su’ non caduchi allori, o, per dir meglio, sull’orologio d’argento che mi regalò mio padre in quella congiuntura solenne; anzi mi venne come una smania, una specie di forza irresistibile di verseggiare; poetai, passi la parola, su tutto: sul mio cane, sull’eruzione dell’Etna, sul cholera-morbus, sul mio primo amore; sì, perchè io ero allora ammalato di questa specie di lattime dell’anima: un amore invincibile, già s’intende, contrariato ed infelice come quello di Romeo e Giulietta; se non che, questi si vedevano e baciavano nottetempo in giardino, ed io vedevo lei, la mia donna fatale, di pieno giorno, al balcone di faccia, e sempre con la via di mezzo e gli asini bipedi o quadrupedi che ci passavano. Non seppi