Pagina:Ricordi storici e pittorici d'Italia.djvu/448

Da Wikisource.

— 96 —


La chiesa, di stile gotico, trovasi quasi pienamente rovinata, e nulla havvi più notevole nel convento; la sola ricordanza di Cicerone, invita a sostare in quella località.

Ivi Cicerone, Quinto, ed Attico, si trattennero in quei colloqui che ci rimangono tuttora nei tre libri, de Legibus. Vennero qui da Arpino passeggiando lungo il Fibrena, pervenuti in insula qua est in Fibreno, vollero ivi fermarsi a riposare, discorrendo di argomenti filosofici. Attico non può saziarsi di ammirare la bellezza del luogo, e Cicerone osservando che soventi e volontieri vi si porta a pensare, a leggervi, a scrivervi, soggiunge trovare desso inoltre a quella località una particolare attrattativa, per essere quella la propria culla, quia hæc est mea, et huius fratris mei germana patria, hinc enim orti, stirpe antiquissima, hic sacra, hic gens, hic maiorum multa vestigia. Dice essere stata quella proprietà. già del suo avo; essere ivi invecchiato negli studi di suo padre malaticcio, di cui fa un grand’uomo. Soggiunge Cicerone che nel vedere quel suo luogo natio, comprende il sentimento di Ulisse, il quale preferiva l’aspetto d’Itaca alla stessa immortalità. Riconosce che Arpino fa sua patria quale civitas, ma che desso propriamente appartiene all’agro Arpinate, ed allora Attico descrive le bellezza dell’isola circondata dalle acque del Fibreno le quali vanno a rinfrescare quelle del Liri, e che sono fredde cotanto, che a mala pena vi si può tenere immerso il piede. Seggono allora per trattenersi intorno alle leggi, e ci rappresentiamo più volontieri il gruppo di quei tre personaggi togati, eminenti per istruzione e per urbanità, che i monaci in tonaca, con ispida barba, contemporanei di Gregorio VII in pieno secolo XI nell’epoca della maggiore barbarie, della maggiore decadenza di Roma. Quale sorpresa non avrebbero provata Cicerone, Attico, e Quiuto, se avessero potuto vedere i Romani del secolo XI.

Cicerone nacque pertanto fra questi pioppi del Fibreno, di cui udiamo tuttora con piacere il mormorio delle foglie