Pagina:Salgari - Duemila leghe sotto l'America - Vol. II.djvu/102

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100 capitolo xxv.


— È il diavolo, mormorò O’Connor con un filo di voce.

— Chi vive? gridò sir John, alzando il revolver.

Un ciottolo, scagliato senza dubbio dall’uomo che sghignazzava, cadde addosso a Morgan il quale rispose con un colpo di revolver.

Al lampo prodotto dalla deflagrazione della polvere fu visto un individuo d’alta statura, con una lunga barba incolta, slanciarsi giù da una roccia e fuggire rapidamente.

Burthon mandò un urlo.

— Che hai? chiese sir John. Sei ferito?

— Ho conosciuto quell’uomo! gridò il meticcio. È lui, sì è lui!

— Ma chi? Parla, parla.

— È Carnot, l’assassino di Smoky!

— Carnot! esclamarono O’Connor e Morgan. Carnot qui?...

Ad un tratto sir John si battè fortemente la fronte.

— Ora mi ricordo! esclamò. Sì, Smoky mi aveva detto che una copia del documento gli era stata rubata dai suoi assassini. E quei miserabili sono qui venuti per rubare il tesoro!... Avanti, compagni, avanti!...

— Sì, avanti, gridò Burthon. Voglio strangolare l’assassino di quel povero Smoky.

Partirono tutti e quattro di corsa, coi revolvers sempre in pugno. Fatti trecento passi si trovarono improvvisamente dinanzi ad una specie di porta assai bassa, ai lati della quale si vedevano appese parecchie chincha.

— Siate prudenti! gridò sir John.

Varcarono la soglia di quella porta e si trovarono in una caverna immensa, scavata in una miniera di carbone, la cui vôlta era sorretta da enormi colonne pure di carbone e bizzarramente scolpite.