Pagina:Salgari - Duemila leghe sotto l'America - Vol. II.djvu/8

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6 capitolo xiv.


— Che disgrazia! Darei un mese della mia vita per uscire da qui, respirare due boccate d’aria e scaldarmi al sole.

— La respirerai quaggiù e ti scalderai su quell'isolotto.

— Andiamo a quell’isolotto, disse O’Connor. Potremo guardare il sole a nostro comodo.

Morgan, Burton e il marinaio si curvarono sui remi e fecero volare il battello su quelle nere acque che, cosa stranissima, nell’agitarsi mandavano uno sgradevolissimo odore. Arrancavano con tanta furia che un quarto d’ora dopo giungevano all’isolotto, bizzarra roccia di settanta od ottanta metri di diametro e che alzavasi a guisa di gobba di cammello, sparsa di massi di basalto nero e di vecchie lave forse da molti e molti secoli raffreddate. Burthon e O’Connor si slanciarono a terra fissando gli occhi verso l’apertura del vulcano, quantunque il raggio di sole cadesse a piombo sulle loro teste.

— Guardatelo! guardatelo! esclamò il meticcio che continuava a guardare a rischio di rimanere acciecato.

— Chiudete gli occhi, imprudenti, disse sir John.

— Perchè? chiese O’Connor.

— Non ci vedrete per lungo tempo se fissate in quel modo il sole. I vostri occhi da molti giorni non vedono che la luce delle lampade.

— Degli uccelli! esclamò Morgan. Vedo degli uccelli!

L’ingegnere guardò l’orifizio del vecchio vulcano e vide parecchi punti neri scendere nel cratere e arrestarsi lungo le pareti.

— Ucciderne uno è cosa impossibile, disse. Sono a più di milleottocento metri da noi.