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Pagina:Salgari - I figli dell'aria.djvu/264

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230 capitolo ventisettesimo


— Non lo rimpiangerò mai, perchè ci ha salvato la vita.

— Andiamocene, capitano. Ne ho abbastanza di questo vallone e anche degli altipiani del Tibet.

— Hanno già accomodato i piani, avendo avuto il tempo di ritirare il feltro prima che venisse stracciato dagli jacks. Viaggeremo colla massima velocità e non ci arresteremo che al lago di Mont-calm. Se nessun incidente sopraggiunge, fra tre giorni anche gli altipiani saranno superati e scenderemo verso regioni più civili.

— Vorrei già essere in India.

— Vi arriveremo, signor Rokoff, non dubitate. Spero però che non rinuncierete a vedere Lhassa, la capitale del Tibet, la sede del Budda vivente e del Gran Lama, una delle città più celebri del mondo e che ben rarissimi europei hanno potuto vedere.

— Giacchè lo volete, andremo a Lhassa. —

Non vedendo comparire più alcun Tibetano, levarono la lingua ad un jack che doveva essere stato ucciso, durante la carica da qualche cavaliere, e tornarono verso lo Sparviero.

Il macchinista aiutato da Fedoro e dallo sconosciuto, aveva allora terminato d’inchiodare il feltro sui piani danneggiati.

— È tutto pronto? — chiese il capitano.

— Sì, signore, — rispose il macchinista.

— Allora inalziamoci! —

Salirono tutti sul fuso.

In quel momento il sole, forata la nebbia, proiettò un fascio di luce nel vallone illuminandolo da un’estremità all’altra.

Più che un vallone era un immenso abisso di tre o quattro miglia d’estensione, largo cinque o seicento passi, colle pareti tagliate quasi a picco e alte per lo meno cinquecento piedi.

Un solo albero, un pino colossale, s’alzava quasi nel mezzo. Era su quello che lo Sparviero aveva urtato nella sua discesa e che per poco non aveva rovesciato il fuso.

Dall’altra parte invece, una gigantesca cascata saltava nell’abisso, con un fragore assordante, precipitando entro un profondo bacino.

Lo Sparviero mise in moto le ali e le eliche e si alzò maestosamente, salendo verso l’altipiano.

Aveva già raggiunto i duecento metri, quando dietro alcune rocce si udirono rimbombare dei colpi di fucile.

Erano i Tibetani che cercavano, ancora una volta, di abbattere gli stranieri.