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La fuga. 207

Si fermavano però di frequente per guardarsi alle spalle, temendo di essere seguiti da quella belva che poteva essere pericolosissima e capace di assalirli.

Dopo un quarto d’ora notarono alcune grosse piante che avevano già osservate quando stavano per affrontare il liboia.

— Se non m’inganno dobbiamo trovarci presso la radura, — disse Alvaro.

— È vero, signore, — rispose Garcia. — Ecco qui quella pianta carica di zucche che avevo ben guardata.

— Sì, una cuiera, come ho udito a chiamare questi alberi dal marinaio.

— Ed ecco la radura.

— Avanziamoci con precauzione, Garcia. Gli Eimuri possono essere tornati.

— Non odo nulla, signore. —

Si spinsero innanzi, tendendo gli orecchi e guardandosi d’attorno, timorosi d’una sorpresa e raggiunsero la radura che la luna illuminava sufficientemente, essendosi già ben alzata in cielo.

Scorsero subito, disteso fra un ammasso di cespugli fracassati e sradicati, l’enorme serpente.

Era perfettamente immobile e giaceva tutto allungato come un immenso cilindro.

— È morto, — disse Alvaro, avvicinandosi con precauzione. — La mia palla doveva avergli attraversato il cervello.

— E manca della testa, signore, — disse Garcia. — È stata troncata con qualche scure di pietra.

— Allora gl’indiani sono tornati qui: ed il capo? L’hanno raccolto morto o ferito? Diavolo! Sarei più contento se non fosse più nel numero dei viventi. Come faremo a saperlo? Eccoci in un bell’impiccio. —

Si era appena rivolte quelle domande, quando a breve distanza, udì improvvisamente a risuonare quel rauco miagolìo e l’ululato, poi subito dopo una voce umana che gridava.

Dios! Dios!

Alvaro aveva fatto un salto innanzi esclamando:

— Il marinaio! Garcia, seguimi! La belva lo ha assalito!