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266 Capitolo Ventisettesimo.

Una forma allungata e nera si era staccata dalla penisoletta sulla quale sorgeva il villaggio e scendeva rapidamente il fiume.

— Una canoa, — disse Diaz.

— Vegliavano nei carbet, — rispose l’indiano. — Vengono ad assicurarsi se noi siamo sbarcati.

— Sì, ci avevano già scoperti.

Presto, nel bosco e marciamo con lena. —

Si cacciarono sotto le palme che s’intrecciavano con rigogliose felci arborescenti, con liane, con piante di vaniglia selvatica e con gruppi d’orchidee, che cadevano dai rami in festoni olezzanti di soave profumo e partirono con passo veloce, temendo di venire inseguiti dai canottieri della piroga.

L’indiano i cui sensi e specialmente l’udito erano acutissimi, di quando in quando si fermava ad ascoltare, poi riprendeva la marcia con maggior velocità, addentrandosi sempre più nella tenebrosa foresta.

Il marinaio, abituato alle rapidissime marce degl’indiani, i quali in una sola notte attraversavano delle distanze incredibili, non aveva difficoltà a seguirlo, ma Alvaro invece doveva fare degli sforzi disperati per non rimanere indietro.

E, poi da quando era sbarcato aveva cominciato a provare dei dolori acuti alle dita dei piedi, come se delle spine vi si fossero confitte.

Dopo due ore di corsa indemoniata fu costretto a confessarsi vinto.

— Arrestiamoci, Diaz, — disse. — Non posso più seguirvi e mi sembra d’altronde che nessun pericolo ci minacci.

— Sì, fermiamoci, — rispose il marinaio. — Voi non siete abituato alle lunghe corse dei selvaggi brasiliani.

— E poi non so che cosa abbia, mi pare che le dita dei piedi siano in cattivo stato.

— Ah! — disse Diaz, ridendo. — So che cosa avete. La bestia maligna vi mangia.

Bisogna sbarazzarvene subito o vi rovinerà i piedi.

— Una bestia!

— Veramente è una specie di pulce: la chique1. Rospo En-

  1. I brasiliani la chiamano Beco do piè, bestia del piede.