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L’aldèe dei Tupy. 271

CAPITOLO XXVIII.

L’aldèe dei Tupy.


Alla sera, dopo una marcia lunghissima attraverso foreste quasi vergini, i due europei e l’indiano giungevano sulle rive d’un altro stagno amplissimo, un’altra savana sommersa che non aveva però le dimensioni di quella che avevano attraversata due giorni prima e sulle cui isole avevano soggiornato tanto tempo.

Agli ultimi raggi del sole morente avevano già scorto, sulla riva opposta, delle immense costruzioni circondate da palizzate altissime che formavano dei bastioni tutt’altro che facili da espugnarsi, anche da parte d’un nemico numerosissimo.

Quasi tutti gl’indiani del Brasile, che vivevano in perpetua guerra onde procurarsi dei prigionieri da divorare, costruivano i loro villaggi in modo da rendere impossibile una sorpresa da parte dei loro nemici.

A differenza dei negri dell’Africa, non usavano rizzare delle capanne appena sufficienti per una famiglia, bensì delle case immense, costruite con tronchi d’alberi, che chiamavano carbet, lunghe oltre cento metri, larghe cinque e alte quasi altrettanto, coperte con foglie di bananeire e con tre porte di cui una metteva sulla piazza destinata al macello dei prigionieri di guerra.

Ognuna di quelle abitazioni serviva ordinatamente d’asilo a venti famiglie, ma non avevano alcuna divisione che separasse una famiglia dall’altra, sicchè vivevano in comune.

Ogni villaggio poi, piccolo o grosso che fosse, come dicemmo aveva la sua cinta formata da una doppia palizzata sulla quale venivano esposte le teste dei nemici divorate, prive del cervello ed immerse nell’olio vegetale dell’andiroba, onde si conservassero lungamente.

In quelle aldèe non vi restavano più di cinque o sei anni, ossia fino a quando avevano sfruttati gli alberi ed il terreno, poi col fuoco distruggevano cinte e abitazioni e andavano a fondare in altre località più ricche di frutta e di selvaggina un nuovo villaggio.