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Una freccia mortale 127

Essendo già il sole prossimo al tramonto, rimandarono la battuta dei boschi all’indomani, contentandosi per quella sera d’un arrosto di pappagalli.

Erano in procinto di spegnere il fuoco per non attirare l’attenzione di qualche tribù d’indiani, persone più da temere che da avvicinare, quando l’acuto udito dell’indiano fu colpito da un legger rumore che si udiva in mezzo alle piante di legno cannone che costeggiavano una piccola palude non ancora visitata.

— Là, — diss’egli stendendo il braccio verso la palude.

— Uomo od animale? — chiese don Raffaele.

— Animale, — rispose l’indiano, sempre avaro di parole.

— È per te, Alonzo, — disse il piantatore.

— Quando si tratta di procurarci delle bistecche, sono sempre pronto, — rispose il giovanotto.

— Purchè non siano di giaguaro, — disse il dottore. — In tal caso, te le lascio, poichè, oltre essere pericolose a guadagnarsi, puzzano di selvatico.

— Molti animali, — disse Yaruri, che ascoltava sempre.

— Vieni, Yaruri, — disse Alonzo.

L’indiano si armò della sua cerbottana e di tre freccie e seguì il giovane cacciatore il quale si era già messo in cammino.