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capitolo viii — fra le nebbie ed i ghiacci 193


sormontandosi le une e le altre, quasi fossero smaniose di distruggersi reciprocamente, di schiacciarsi, di polverizzarsi; scavavano baratri entro i quali precipitavansi, turbinando, le nebbie ed assieme a loro la povera Shannon, poi tornavano a rimontare, a ricostituirsi e riprendevano la loro corsa colle creste irte d’una spuma candida che aveva talora dei bagliori fosforescenti.

In mezzo a quell’orribile tramestìo d’acqua, i ghiacci polari danzavano una sarabanda scapigliata. Si vedevano correre sulle creste scintillando fra la caligine, scendere negli abissi, rotolare, cadere, rovesciarsi, urtarsi tuonando e sollevando nelle loro brusche cadute altre ondate non meno terribili di quelle sollevate dall’uragano, anzi di più, poichè più improvvise e più impetuose.

La Shannon, piccolo guscio perduto su quel mare tempestoso, semplice atomo fra quelle masse di ghiaccio, che con un solo urto potevano sminuzzarlo, lottava valorosamente contro gli assalti del vento scatenato e delle onde.

Colle sue vele terzaruolate, fuggiva come un uccello marino, squarciando coi suoi alberi il pesante nebbione e tagliando col suo solido sperone i piccoli ghiacci, che incontrava sul suo cammino.

Saliva intrepida le masse liquide, scendeva arditamente negli abissi, ma tornava a risalire fra la spuma delle creste. I marosi la investivano, la travolgevano, la facevano rovesciare ora sul babordo ed ora sul tribordo, la inondavano da poppa a prora, ma non cedeva malgrado la sua estrema piccolezza.

I suoi uomini, aggrappati ai cavi per non venire portati via da quei colpi di mare che spazzavano la coperta senza posa, si mantenevano tranquilli, ma