Pagina:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu/218

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162 capitolo ventesimottavo

    Per gli auspicj divini apparve tosto
Le stragi e il danno agli uomini vicino,
E già nata parea la civil guerra:
Poichè di sangue e di caligin tetra
190Febo coprissi il deformato volto,
E il pieno aspetto suo Cinzia eclissando
I raggi ne sottrasse a tanto orrore.
Al frantumarsi delle alpine vette
Mugghiavan lungi i dirupati gioghi,
195Nè sopra i lidi soliti vagando
Ivano i fiumi, sempre gonfi, or scarsi,
Strepito d’armi per le nubi rugge,
Orrida tromba desta Marte in cielo,
Non usa fiamma il Mongibel divora
200Fulmini all’aer vibrando, e fra le tombe
E fra l’ossa insepolte ecco de’ morti
Con funesto stridor minacciàr l’ombre.
Cinta d’ignote stelle una cometa
Seco tragge gli incendj, e pioggia versa
205Improvvisa di sangue in terra Giove.

    Presto i presagi avverò il ciel, dappoi
Che Cesare troncato ogni ritardo,
E dal desir della vendetta spinto,
L’armi gettando, onde pugnò tra’ Galli,
210Quelle imbrandì della civil discordia.

    Dell’alpi graie su la estrema cima,131
Là donde svelte caggiono le rupi,
Nè un passo offrono altrui, luogo avvi sacro
Per gli altari di Alcide, a cui l’inverno
215Siepe alza intorno di ghiacciata neve,
E sino agli astri il confin bianco spigne:
Di là, diresti, cade il ciel: non raggio
Di estivo sol, non il tepor di Aprile
Mite lo rende mai: ruvido, duro