Pagina:Seneca - Lettere, 1802.djvu/62

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ciocchè che importa o che tu non cominci, o che finischi, essendo, che dell’una, e dell’altra di queste cose l’effetto sia il non essere? Con queste e simili esortazioni tacite, poichè parlar non potevo, posi fine al ragionar con me medesimo: dopo a poco a poco il sospirio, che avea già cominciato a convertirsi in anelare, prese maggiori intervalli, a tal che ritardando cessò del tutto; e quantunque sia mancato, non però lo spirito corre secondo il suo ordinario. Sento ancor non so che di difficoltà, e di tardanza di lena. Alfin faccia com’egli vuole, purchè io non ne suspiri nell’animo. Benchè voglio che tu ti riprometti questo di me, ch’io all’estremo non temerò punto: già son preparato di modo, ch’io non penso di aver a vivere tutto un giorno intiero. Lauda, et imita colui, al quale non incresce di morire, piacendogli di vivere. Perciocchè che virtù è l’uscire, quando sei cacciato? Non dimeno anco in questo caso è virtù; perchè son cacciato veramente, ma non altrimenti che s’io n’uscissi per me medesimo. E di qui viene che non si può dir che un savio sia scacciato; perchè l’esser scacciato è l’esser per forza levato, donde contra tua voglia ti parti. Il Savio non fa cosa alcuna sforzatamente: fugge la necessità, perchè vuol per se medesimo quello, a che la necessità lo sforzerebbe. Sta sano.