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236 il demonio muto

— Uscii dalla chiesa, convertita e spaventata. Tornai a casa correndo. Mi prese una febbre, che per dieci giorni tenne il mio corpo in orridi vaneggiamenti. Non ero guarita, quando una mattina scappai dal sito dove abitavo, distante un’ora, e, portando con me la chitarra, che avevo rubata al rogo del Santo, andai a Bagolino per confessarmi. Il Beato Antonio era già andato a Gardone, assai malato anch’esso, quasi morente. Presi una carrettella, e, sempre col mio strumento maledetto, partii. Il giorno appresso ero in val Trompia, a Gardone. Corsi tosto alla chiesa, e la vidi tutta parata di nero, tutta a ceri ardenti. L’infinito popolo singhiozzava e pregava; i sacerdoti cantavano a morto. Nel mezzo, sopra un immenso catafalco, seduto in un trono maestoso, vestito degli abiti sacri, col calice in mano, stava il Santo, più livido che mai. Era immobile. Aveva gli occhi aperti e fissi. Pareva che guardasse. Il cadavere, certo, mi malediva. —

La vecchia riprese a camminare assai lenta. Io le andavo dietro senza vedere più nulla.

— Siamo lontani? — le domandai.

Non rispose. Si continuò a salire la montagna. La vecchia era diventata taciturna, ma sentivo sempre il picchio del suo bastoncino sui sassi. Finalmente si giunse dinanzi ad un casolare. La vecchia spinse l’uscio ed entrò. Cercò qualcosa, e poi, battendo con l’acciarino, fece uscire dalla pietra qualche scintilla; ac-