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292 senso

rientrai nelle vie della città; impazzivo; cascavo di fatica; da diciotto ore non avevo mangiato. Mi trovai per caso di contro ad una modesta bottega da caffè, e, dopo avere più volte girato innanzi alla vetrina, parendomi che non ci fosse nessuno, andai a pormi nel canto più lontano e scuro, ordinando qualcosa. Nell’angolo opposto, sdraiati sullo stesso sofà rosso, che circondava la sala vasta, bassa, umida e mezza buia, stavano due militari, fumando e sbadigliando.

Poco dopo entrarono due altri ufficiali; un giovinetto, che poteva avere diciannove anni, lungo, smilzo, con i baffetti sottili, ed un uomo sui quaranta, tozzo, pesante, con il muso pavonazzo a bitorzoli ed a bernoccoli, le larghe sopracciglia nere come il carbone e due mustacchi sotto il naso grosso così folti ed irti che parevano setole; aveva in bocca una pipa boema, corta nel cannello, ma enorme nel camino, dalla quale uscivano ampie nubi di fumo, che andavano l’una dopo l’altra ad annerire il soppalco. Il giovinetto andò dritto a salutare gli ufficiali nell’angolo. Sentii che diceva: — Ne ho visti morire quaranta in due ore nella sala delle operazioni sotto i ferri dei chirurghi, i quali buttavano via braccia e gambe come se giuocassero al pallone, e trapanavano e aggiustavano teste....

— Bisognerebbe che aggiustassero quelle dei nostri generali — brontolò il Boemo, ghignando.