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122 per monaca


il velo, i fiori, i gioielli, le scarpette di raso, tutto l’apparato mondano. La bruna tonaca delle monache francescane le scendeva sino ai piedi, dal collo, in pieghe grosse, strette alla vita dal cordone bianco: i piedi non si vedevano, le mani avevano il biancore giallastro della cera: i bei capelli biondo-castani le scendevano sulle spalle, disciolti. A vederla in quell’abito ruvido, Giulia Capece sentì un grande schianto al core e si mise a piangere silenziosamente. Il cardinale officiante che era entrato nel monastero con Eva, si staccò dal fianco della badessa, si avanzò verso la monacanda; benedì il bianco scapolare, ed Eva lo passò al collo, macchinalmente, non guardando in volto nessuno. Conservava sempre la stessa fisonomia pacata, che nessuna altra espressione veniva a turbare, nè di dolore nè di gioia: questa immobilità in quel volto che tutti avevan sempre visto vivacissimo, feriva la fantasìa più di qualunque espressione dolorosa. Infine, Eva s’inginocchiò accanto alla porticina e chinò il collo: una monaca si staccò dalle altre e le si avvicinò, raccogliendole i capelli tutti in un fascio e stringendoli nel pugno: la badessa, una vecchietta curva, con una grande croce gemmata che le batteva sullo scapolare, appoggiandosi a una mazzettina, si avanzò lentamente verso Eva. Dalla chiesa tutti tendevano il collo, si rizzavano in punta di piedi, per vedere che accadesse nel vano della porticina. La novizia, inginocchiata, pregava, si vedeva il moto delle labbra: la vecchia badessa impugnò un paio di lunghe forbici, dalla lama lucentissima, le passò sotto il fascio dei capelli, che la monaca teneva stretto e sollevato. Sentendosi il freddo dell’acciaio