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— Non è il mio che m’interessa, è il loro.
— È vero — soggiunse Emma.
Di nuovo tacquero.
— Quanto tardano — mormorò la puerpera — Avranno fatto il giro largo: o la mamma li avrà trattenuti.
— La matrina è Grazia?
— Sì, Grazia Orlando: e suo marito, il padrino.
— Ti rammenti, Rosina? Pareva che impazzisse per Giorgio Lamarra, Grazia: e poi è guarita, ha sposato l’avvocato Santangelo.
— Ha fatto bene: a che amare un birbante come quello?
— Anche Clementina Riccio, si è consolata e ha sposato suo cugino, lo zoppo.... che l’amava tanto.
— A che servono questi amori così lunghi, Emma?
— Quando si vuol bene, chi si accorge del tempo?
— Con Vincenzino ci siamo sposati dopo sei mesi di amore.
— Ma di Vincenzino ve n’era uno solo, il tuo — e la intonazione era fra dispettosa e umile.
Una viva pietà si delineò sul volto della malata. Ma non ebbe tempo di dire una dolce parola a Emma. Caterina Tarcagnota, maritata Savarese, entrava, enorme, in un vestito di stoffa nera, con le guancie rosse e lucide, con le braccia simili a colossali salciccioni. E subito, con un sospiro, esclamò:
— Oh cara signora Sticco, a chi tanto, a chi niente!
— Avete il tempo, cara baronessa, ne farete dodici.