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la mano tagliata. 95

spumante e lo champagne scorrevano a fiotti, egualmente.

Il corso dei fiori, in quell’ultimo giovedì di carnevale, si annunziava splendido. Per lo più, è un trionfo del cavolo e della plebe: la plebe romana che si vendica come può, della sua qualità di plebe. Per lo più, il corso dei fiori si risolveva sempre in uno slancio di cavoletti, di mazzetti d’insalata e non tutti slanciati gentilmente: spesso erano proiettili pericolosi. Ma quell’anno, come ho detto, il denaro scorreva a fiumi e la plebe era contenta. D’altronde, il comitato del carnevale aveva così bene organizzato le cose — miracolo novissimo — che il campo sarebbe stato tenuto dalle sue carrozze, dalle sue giardiniere piene di fiori. Così, molte famiglie ricche e molte donnine ricche di denari non proprî, molti stranieri si decisero di intervenire al corso dei fiori: e il movimento delle vetture, dei pedoni, dei balconi si cominciò ad animare verso le due.

Mazzolini di fiori volavano dai balconi alle carrozze e viceversa: era, in principio, uno scambio raro e lento: poi, si fece più forte. Delle vetture cariche di fiori, portandone persino sulle ruote, andavano pianissimo, fermate dalla folla e il volo dei fiori si faceva alto e fitto, il chiacchierìo della folla diventava un clamore.

Due giovanotti, elegantissimamente vestiti, andavano a piedi, pian piano, a braccetto, prendendo sul volto, nel collo, sulle mani, dei mazzolini di fiori che venivano loro lanciati da qualche bella signora, da sopra un balcone o da una carrozza trasformata in aiuola. L’uno alto, bruno, pallido, con l’aria finissima, era il giovane conte milanese Roberto Alimena: l’altro, biondo, alto, con certi belli occhi celesti, con una testa di arcangelo fra dolce e fiera, era il conte Ranieri Lambertini, di una grande famiglia romana, molto illu-